La dichiarazione di legge marziale da parte del presidente Yoon Suk Yeol ha scatenato un’ondata di preoccupazioni e critiche, segnando un momento di tensione nella politica sudcoreana. Ecco un’analisi della situazione e dei principali protagonisti.
Yoon Suk Yeol, 63 anni, leader conservatore, sta affrontando un difficile momento politico. Con tassi di approvazione intorno al 25%, tra i più bassi per un presidente sudcoreano, il suo mandato è segnato da scandali e crescenti critiche da parte dell’opinione pubblica. Nonostante sia a metà del suo unico mandato quinquennale, la sua leadership appare sempre più instabile.
Il Partito Democratico, principale oppositore di Yoon, detiene una solida maggioranza in parlamento. Questo controllo ha consentito all’opposizione di pianificare misure controverse, tra cui il taglio al bilancio e una mozione di impeachment contro il capo del Comitato di Audit e Ispezione. La legge marziale dichiarata da Yoon è vista dai critici come un tentativo di evitare decisioni parlamentari contrarie alla sua amministrazione.
La first lady Kim Keon Hee è al centro di accuse di presunti illeciti, che hanno portato Yoon a bloccare tre indagini speciali contro di lei. Inoltre, tensioni interne al partito di governo, People Power Party, mettono a rischio la sua autorità, aggravando i conflitti politici.
Nonostante l’instabilità politica, la Corea del Sud rimane una delle democrazie più forti dell’Asia. Con una tradizione di elezioni libere e pacifici trasferimenti di potere, il Paese ha affrontato crisi simili in passato. Le proteste di massa contro Park Geun-hye nel 2016-2017, culminate nel suo impeachment, dimostrano come il popolo coreano sia disposto a difendere i principi democratici.
E se il presidente sudcoreano avesse seguito un consiglio di Trump? L’idea di dichiarare la legge marziale per affrontare opposizioni politiche o contestazioni pubbliche non è estranea al dibattito politico globale. Durante la presidenza di Donald Trump negli Stati Uniti, si ipotizzò che potesse considerare misure straordinarie per mantenere il controllo durante momenti di tensione, come nel periodo successivo alle elezioni del 2020. Sebbene Trump non abbia mai attuato una simile dichiarazione, i suoi sostenitori più estremi avevano discusso apertamente l’idea, generando timori sulla tenuta democratica. Del resto l’attacco al Parlamento del 6 gennaio ne è la prova. La situazione in Corea del Sud solleva un interrogativo interessante: fino a che punto i leader democratici possono spingersi utilizzando strumenti di emergenza per consolidare il potere, e cosa accadrebbe se tali decisioni venissero prese in Paesi con sistemi democratici altrettanto complessi?