L’ondata di contenuti superficiali che distorcono la realtà culturale coreana è presente in massa sui social. E la banalizzazione del razzismo in Italia è una cosa spaventosa
SEOUL – L’esplosione globale della Hallyu, l’onda coreana, ha portato milioni di persone ad avvicinarsi alla cultura coreana. Tuttavia, parallelamente a questo interesse genuino, si è sviluppato un fenomeno preoccupante: l’invasione di influencer e content creator che visitano la Corea del Sud armati solo di smartphone e pregiudizi, producendo contenuti che spesso distorcono, banalizzano o addirittura ridicolizzano una cultura millenaria.
Il successo planetario del K-pop e dei K-drama ha creato un’opportunità d’oro per chi fa del clickbait la propria professione. Seoul è diventata la nuova destinazione “instagrammabile” per eccellenza, una tappa obbligata nel tour mondiale degli influencer in cerca di contenuti virali. Il problema non risiede nell’interesse per la Corea, ma nell’approccio superficiale e spesso irrispettoso con cui molti creator affrontano questa esperienza.
Troppo spesso assistiamo a video che riducono un paese complesso e articolato a una serie di stereotipi: il cibo “strano”, le persone “tutte uguali”, i comportamenti “bizzarri”, la elle al posto della erre, stereotipo puramente razzista contro le persone asiatiche ma in Italia questo è accettato e passa tranquillamente! Questa narrazione semplificata non solo impoverisce la comprensione della cultura coreana, ma contribuisce a perpetuare pregiudizi dannosi.
Una delle tendenze più problematiche è la costante enfatizzazione dell'”esotico” e dello “strano”. Ogni aspetto della vita quotidiana coreana viene presentato attraverso la lente della meraviglia forzata o, peggio ancora, del ridicolo velato. Il kimchi diventa “il cibo puzzolente”, i bagni pubblici “senza carta igienica“, “portatevela dall’Italia” (mai visto in 15 anni di vita in Corea, ndr.
Questa prospettiva occidentocentrica non solo manifesta una profonda ignoranza culturale, ma contribuisce a creare una distanza artificiale tra “noi” e “loro”, alimentando quella percezione di alterità che dovrebbe essere proprio ciò che un vero travel content creator dovrebbe abbattere.
Ciò che colpisce maggiormente in molti di questi contenuti è l’evidente mancanza di preparazione. Creator con milioni di follower si presentano in Corea senza conoscere nemmeno le basi della storia del paese, il nome dei cibi (!) o i fondamenti dell’etichetta sociale coreana. Il risultato sono situazioni imbarazzanti in cui l’ignoranza viene spacciata per spontaneità.
Non si tratta di pretendere che ogni turista diventi un esperto di cultura coreana, ma quando si ha la responsabilità di influenzare migliaia o milioni di persone attraverso i propri contenuti, un minimo di rispetto e preparazione dovrebbe essere un prerequisito etico non negoziabile.
Le conseguenze di questo approccio superficiale si estendono ben oltre il singolo video. Quando un influencer con un vasto seguito perpetua stereotipi o fornisce informazioni errate, contribuisce a creare una rappresentazione distorta della Corea del Sud nell’immaginario collettivo dei propri seguaci. L’importante per loro è fare il video stupidotto, che sia virale, insomma
Questo fenomeno è particolarmente grave considerando che molti giovani occidentali formano le proprie opinioni sui paesi asiatici principalmente attraverso i social media. Una rappresentazione scorretta o stereotipata può influenzare le percezioni di intere generazioni, contribuendo a mantenere vivi pregiudizi e incomprensioni culturali.
Dietro molti di questi contenuti si nasconde spesso una logica puramente commerciale: la Corea del Sud “sells”, e poco importa se l’immagine trasmessa sia accurata o rispettosa. Il meccanismo degli algoritmi premia contenuti che suscitano reazioni forti, e cosa c’è di meglio dell’esotismo mal digerito per generare engagement?
Questa monetizzazione dell’ignoranza culturale rappresenta una forma moderna di orientalismo digitale, dove l’Asia viene ancora una volta ridotta a intrattenimento per il consumo occidentale, privata della sua complessità e dignità culturale.
Non tutti i content creator che visitano la Corea del Sud cadono in questi errori. Esistono influencer e travel blogger che si impegnano seriamente nell’approfondimento culturale, che studiano la storia del paese, imparano la lingua, e presentano contenuti equilibrati e rispettosi. Questi creator dimostrano che è possibile coniugare intrattenimento e rispetto culturale.
La responsabilità non ricade solo sui singoli creator, ma anche sulle piattaforme social e sui loro algoritmi, che dovrebbero premiare contenuti di qualità piuttosto che semplici acchiappaclick. Allo stesso tempo, il pubblico ha il potere di premiare con visualizzazioni e condivisioni solo quei contenuti che dimostrano rispetto e accuratezza culturale.
La Corea del Sud è un paese con una storia complessa, segnata da guerre, dittature, ma anche da una straordinaria rinascita economica e culturale. È una società che ha saputo coniugare tradizione e modernità, mantenendo la propria identità culturale pur abbracciando l’innovazione tecnologica e sociale.
Ridurre tutto questo a contenuti superficiali non solo impoverisce la narrazione, ma rappresenta una mancanza di rispetto verso i 52 milioni di coreani che ogni giorno costruiscono e vivono questa realtà complessa e affascinante.
L’influencer marketing nel settore travel e food ha il potere di abbattere barriere culturali e promuovere comprensione reciproca tra popoli diversi. Tuttavia, questo potere comporta una responsabilità che non può essere ignorata in nome dei like e delle visualizzazioni.
La Corea del Sud merita di essere raccontata con la stessa serietà e rispetto che riserveremmo a qualsiasi altra cultura. Non è un parco tematico per il divertimento degli stranieri, ma la casa di milioni di persone con la propria dignità, storia e identità.
È tempo che creator, piattaforme e pubblico si assumano le proprie responsabilità per costruire un dialogo culturale più maturo e rispettoso. Solo così il fenomeno della Hallyu potrà davvero contribuire a un mondo più interconnesso e comprensivo, anziché perpetuare divisioni basate sull’ignoranza e sui pregiudizi.
La cultura non è un prodotto da consumare, ma un ponte da attraversare con rispetto.