Seoul, lacorea.it – Quando un idol K-pop muore, i giornalisti mostrano il peggio del loro sensazionalismo ipocrita
Ogni volta che un idol K-pop si toglie la vita, il mondo del giornalismo dimostra di non avere né rispetto né dignità. E non parlo solo del modo in cui trattano la notizia, ma dell’ipocrisia disgustosa con cui scelgono di raccontarla. Perché, signori giornalisti sudcoreani, non avete il coraggio di pronunciare la parola “suicidio”? Perché continuate a usare frasi come “trovato morto”, come se steste descrivendo un oggetto smarrito e non una persona che ha sofferto fino all’ultimo respiro?
E poi, che dire di quella ridicola precisazione che sembra uscita da un copione prestabilito: “Nessuno si è introdotto in casa, si esclude l’omicidio”. Siamo in Corea del Sud, mica nel Far West! Con tutte le telecamere, i sistemi di sicurezza e il controllo che c’è, pensate davvero che qualcuno possa entrare in casa di un idol per commettere un omicidio? Ma chi volete prendere in giro?
Questa retorica non solo è inutile, ma è anche offensiva. Offensiva per l’intelligenza di chi legge, offensiva per la memoria di chi non c’è più, e offensiva per tutte le persone che ogni giorno lottano contro problemi di salute mentale. Perché invece di nascondervi dietro a queste frasi fatte, non parlate apertamente di ciò che è successo? Perché non affrontate il tema del suicidio nella società sudcoreana con la serietà che merita, invece di trasformare tutto in un macabro gioco di parole?
La verità è che i media preferiscono il sensazionalismo alla responsabilità. Preferiscono insinuare, suggerire, lasciare spazio a teorie del complotto piuttosto che fare luce su una realtà che fa male: quella di un sistema che schiaccia i giovani, di un’industria che sfrutta fino all’osso, e di una società che spesso non sa ascoltare chi grida aiuto. E i netizen hanno la loro dose di colpa: gli idol non possono fidanzarsi, sposarsi ma devono sottostare alla volontà dei fan perché loro, gli idol, sono solo un prodotto creato ad arte dalle agency che tirano i fili.
E allora, cari giornalisti, smettetela di nascondervi dietro a un linguaggio sterile e ipocrita. Smettetela di trasformare la morte in uno spettacolo. Abbiate il coraggio di chiamare le cose con il loro nome. Perché se continuate a fuggire dalla realtà, non siete solo complici di un sistema malato, ma anche di una cultura del silenzio che uccide più delle parole.
E a chi legge: non accettate passivamente questa narrazione. Pretendete rispetto, verità e umanità. Perché ogni vita persa merita di più di un “trovato morto” e di un “nessun omicidio”. Merita di essere ricordata per quello che era, non per come i media decidono di raccontarla.